Tamara Chikunova non è riuscita a salvare la vita al suo unico figlio. Porterà per sempre nel suo cuore questo strazio, ma per non impazzire e per non farsi sopraffare dalla disperazione, Tamara si è impegnata con tutte le sue energie in una missione: salvare dalla pena di morte i figli di altre mamme come lei. Così Tamara Chikunova, 64 anni, originaria di Tashkent, nell'ex repubblica sovietica dell'Uzbekistan, ha fondato il movimento Madri contro la Pena di Morte nelle ex Repubbliche Sovietiche. Grazie al sostegno della Comunità di Sant'Egidio e di altre organizzazioni internazionali impegnate per la difesa dei diritti umani, Tamara continua in questo modo la battaglia in nome del figlio che non ha più, Dmitriy. «Mio figlio Dmitriy», racconta Tamara, «aveva 28 anni quando, l' 11 novembre del 1999, venne condannato a morte. Mio figlio è stato condannato a morte ingiustamente, come responsabile di un duplice omicidio.
Lo hanno accusato di aver ucciso due suoi colleghi di lavoro. Reato che in realtà non aveva commesso. Dopo l'arresto, compiuto il 17 aprile del 1999, in prigione gli hanno chiesto di firmare dei documenti, già scritti con la sua finta confessione. Lui si è rifiutato e a quel punto le autorità hanno arrestato me. Il mio Dmitriy lo hanno torturato, picchiato, quasi soffocato, ma quando ha saputo del mio arresto ha deciso di firmare quella finta confessione. Così mio figlio ha firmato la propria condanna a morte in cambio della mia vita».
Tamara va avanti nel suo racconto tesa, nervosa, ma a ciglio asciutto. «Fino all'ultimo», continua, «ho sperato in un giudizio giusto, ma purtroppo non è andata così. Mio figlio è stato più volte interrogato senza neppure la presenza di un avvocato. E così è arrivata la condanna a morte. Dmitriy, 28 anni, per le autorità del mio Paese era una persona che non aveva alcun valore per la società, non aveva nessuna possibilità di essere corretto nei luoghi di detenzione, perciò è stato condannato a morte. La sua domanda di grazia non è mai stata accolta, così lo hanno fucilato il 10 luglio del 2000.
Proprio per quel giorno avevo chiesto di poterlo incontrare in cella. Il permesso mi è stato rifiutato, poi ho saputo della fucilazione, avvenuta in segreto, quando mi è stato consegnato il certificato di morte. Non mi hanno neppure detto dove si trovava il luogo della sua sepoltura». Schiantata dal peso del dolore (un dolore che Tamara, divorziata, deve portare sulle spalle da sola), questa madre dal cuore spezzato si trova davanti due strade: «Potevo andarmene dal mio Paese e magari lasciarmi morire per la disperazione, oppure andare avanti a vivere lottando contro la pena di morte. Ho scelto di vivere».
Così nel 2000 Tamara Chikunova fonda il suo movimento. «Non ho imparato subito a lottare contro la dittatura, all'inizio mi sentivo un po' un don Chisciotte contro i mulini a vento. Lottavo anche dentro di me, perché sentivo molto forte un desiderio di vendetta, volevo vendicarmi personalmente di chi mi aveva tolto il mio unico figlio. Ma poi mi sono resa conto che era più utile aiutare i detenuti rinchiusi nel braccio della morte. Purtroppo certe volte non abbiamo fatto in tempo ad annullare la sentenza, così non siamo riusciti a impedire almeno 21 esecuzioni».
Nello sguardo di Tamara si legge tutto il dolore per non aver impedito queste altre morti. Poi il racconto riprende, con un dettaglio drammatico:«Purtroppo io ho dovuto informare le madri e i padri di questi condannati perché le esecuzioni avvengono sempre in segreto. Ho dovuto svolgere l'ingrato compito di essere l'angelo della morte e guardare negli occhi le madri mentre dicevo loro dell'esecuzione del loro figlio. Una esperienza terribile, perché ogni volta è stato come rivivere la morte di mio figlio.
Non augurerei neppure al mio peggior nemico una missione così. Di notte piangevo, urlavo, soffrivo, gridavo a Dio tutta la mia rabbia per essere costretta a portare questa croce. Poi arrivava la mattina, mi alzavo e pensavo che nelle celle delle prigioni c'erano tanti altri giovani. Li immaginavo tutti come figli miei, che aspettavano qualcosa da noi, così riprendevo le forze e la voglia di lottare». Da sola,Tamara non ce l'avrebbe fatta. Ma ha trovato l'aiuto della Comunità di Sant'Egidio e di tanti amici e volontari. «Con il loro sostegno, sono riuscita ad andare avanti»,conferma.
«Vorrei ringraziare tutte quelle persone che hanno firmato appelli, che hanno sostento il nostro lavoro. Grazie a loro siamo riusciti a salvare la vita a 23 persone, poi finalmente, il primo gennaio del 2008, l'Uzbekistan ha abolito la pena di morte. Parallelamente al lavoro in Uzbekistan ci siamo impegnati anche in altri Paesi delle ex Repubbliche dell'Unione Sovietica. Per esempio in Tajikistan (dove nel giugno del 2004 è stata decisa la moratoria sulla pena di morte). Nel 2007 è stata finalmente abolita la pena di morte nel Kirgizistan dove abbiamo salvato dalla esecuzione della sentenza 167 persone. Il 20 luglio del 2009 la pena capitale è stata abolita dal governo del Kazakistan e nel 2011 anche la Mongolia ha deciso di compiere questo passo di grande civiltà».
In un anno 5mila esecuzioni
Sono ancora 58 i Paesi nel mondo che praticano la pena di morte, secondo i dati di Amnesty International, mentre altre 140 Nazioni, o per legge o di fatto, l'hanno abolita. Nonostante diminuiscano i Paesi che mantengono nella propria legislazione la pena capitale, rimane, però, altissimo il numero di vittime. Sarebbero circa 5mila, secondo la Comunità di Sant'Egidio, mille in meno dell'anno precedente, ma comunque un numero significativo. Di queste 5mila esecuzioni ben 4mila sono state eseguite in Cina. Seguono, come numero di morti, l'Iran, l'Arabia Saudita, il Giappone e gli Stati Uniti.
I dati sono stati diffusi dalla Comunità durante l'ultimo Congresso internazionale dei ministri della Giustizia organizzato sul tema Per un mondo senza pena di morte. L'incontro ha inaugurato anche la Giornata internazionale delle "Città per la Vita" che si celebrerà ogni 30 novembre in ricordo dell'anniversario della prima abolizione della pena capitale, nel 1786, da parte di uno Stato europeo, il Gran Ducato di Toscana. Tra gli ultimi, invece, la Mongolia, l'Illinois e il Connecticut. Infine, nella moratoria, la quarta, approvata a fine anno dalle Nazioni unite, si fa menzione esplicita dell'obbligo internazionale di non condannare a morte donne incinte e minori. «Quella di una donna incinta», ha commentato il ministro della Giustizia Paola Severino, «è una doppia condanna a morte e una delle vittime è senz'altro innocente, mentre la sola idea della condanna a morte di un minore è inaccettabile e raccapricciante».